Il rapporto che l’Ottocento italiano in genere, soprattutto nella sua seconda metà , intrattiene con la morte è particolarmente complesso. Gli aspetti culturali propri del Positivismo, declinati secondo modalità culturali di natura materialistica e di carattere medico-biologico, determinano una profonda attenzione da parte dell’arte e della letteratura nel ritrarre la scienza, soprattutto nei suoi frangenti più inquietanti, non dimenticando, quindi, musei anatomici, sale autoptiche, preparati umani che, in prosa e in versi, si fanno nuovi rappresentanti poetici della morte romantica. Ai sentori pre-romantici, cimiteriali, di cui avevano già beneficiato Ippolito Pindemonte e Ugo Foscolo in primis coll’ode famosa Dei sepolcri, si coniugano, da una parte, il romanticismo europeo (tanto diverso dal romanticismo politico e civile che, per ragioni di forza maggiore, si sviluppò in Italia); dall’altra, invece, si intuiscono le esigenze della nuova editoria, intenta a commercializzare definitivamente la letteratura d’intrattenimento, secondo la logica economica del feuilleton, destinato ai lettori di media estrazione socio-culturale e, per natura del genere, di forte impatto emotivo.
Il calderone degli studi del Positivismo, ben nutrito di “bei casi di scienza”, di criminali atavici e di incertezze evoluzionistiche (che sottraevano all’uomo la propria supposta centralità universale) si presentava agli occhi di molti narratori come un inestinguibile serbatoio di ispirazioni, tutte giocate tra la narrativa necrofila proposta dal luogo realistico del cadavere anatomizzato o conservato e la diffidenza nei confronti di quello stesso mondo scientifico esatto, che tendeva a riprodurre in vitro i segreti della vita, della natura e dell’invisibile. Già allora, tuttavia, l’indagine scientifica sembrava condividere una capacità gnoseologica simile a quella offerta della poesia e, talvolta, dalla narrativa. Viceversa, sul fronte più propriamente didattico e didascalico in senso più ampio, la necessità divulgativa imposta dalla cultura dominante fece presto in modo che gli stessi scienziati, nel pubblicare le proprie scoperte o i propri saggi, diventassero esperti nell’uso di stratagemmi letterari, finendo così per compilare trattati, pur rigorosi, ma talvolta ben più coinvolgenti, inquietanti o destabilizzanti di quanto non fossero gli stessi romanzi d’appendice che, del resto, proprio da essi traevano ispirazione.
La scienza diviene quindi, in letteratura e in arte, la base realistica su cui coltivare il segno del fantastico, soprattutto per autori come Igino Ugo Tarchetti (1839-1869), Emilio Praga (1839-1875), Arrigo Boito (1842-1918) e, in sostanza, per tutta la tensione scapigliata e protoverista italiana. Si pensi alla poesia di Boito Lezione d’anatomia o ai versi di Praga in A un feto o ancora al racconto di Tarchetti Un osso di morto, tutti noti antecedenti di un genere letterario tanatologico ancora oggi ricco di sostanza.
La sala è lùgubre; / dal negro tetto / discende l'alba,/ che si riverbera / sul freddo letto / con luce scialba / [...] / Con quel cadavere / (steril connubio! / Sapienza insana!) / Tu accresci il numero / di qualche dubio, / scĂŻenza umana! / [...] / E mentre suscito / nel mio segreto / quei sogni adorni... / in quel cadavere / si scopre un feto / di trenta giorni.
[da Arrigo Boito, Lezione d'anatomia, in «Rivista minima», 17 maggio 1874]
Se, però per uno scrittore come Carlo Dossi (1849-1910), il romanziere Giuseppe Rovani e lo scienziato Paolo Gorini rappresentavano due delle “colonne” del proprio libero apprendistato intellettuale, le attività dello stesso Gorini e, in particolare, quelle anatomiche condotte con successo sul corpo di Rovani, nel 1874, mummificato dallo scienziato lodigiano, così come vengono descritte dalle Note Azzurre e dalle cronache coeve, appaiono oggi paradigmatiche nell’identificazione e nello studio di due luoghi letterari di grande successo.
In primo luogo, il macabro meraviglioso del cadavere mummificato (intendendosi “meraviglioso” nel segno del genere letterario corrispondente), reso eterno dalla scienza, è naturalmente espresso dall’idea dell’innaturale conservazione della materia (che infrange la regola naturale della decomposizione), della realtà tangibile della carne. Fatto, questo, che sgomenta e che pone lo scienziato in una posizione sovrumana e romanticamente sublime, rendendolo idealmente in grado di arrestare le più elementari trasformazioni della materia organica inanimata e di evitare la decomposizione del mondo. Nasce così, in letteratura, il mito e lo stereotipo dello scienziato “pazzo”, solitario, dedito esclusivamente al culto e alla venerazione della propria opera, concentrato in un ascetismo che della ricerca, appunto, fa la ragione di vita ultima e ineludibile. Ma questa ragione di vita incarna anche il potere dettato da una conoscenza che diviene, per certo immaginario, vero sapere per iniziati agli occhi di quei tantissimi profani che, ammirati e spaventati insieme, celebravano direttamente o indirettamente il mito del materialismo e del “fatto” scientifico, della riproducibilità dei fenomeni e della loro osservazione diretta, in una rigida descrizione del mondo e della natura.
L’imbalsamazione ha poi un ruolo duplice nella produzione letteraria popolare: tra le prose e le poesie degli scrittori e dei poeti della prima Italia unita essa può rappresentare un luogo narrativo di successo, teso a richiamare una più concreta situazione storico-sociale in cui la scienza e i suoi atteggiamenti culturali condividono la natura di fenomeno storico e di protagonisti dell’immaginario. Ma rappresenta anche, agli occhi di certi romantici, un affascinante quanto terrificante paradosso, che diviene legge di natura, ma di quella spaventevole e artificiale natura scientifica che sembrava opporsi decisamente al regolare corso di una sua forma più universalmente intesa e ben più rassicurante, anche nelle sue vesti leopardiane di «matrigna».
Arrestando metaforicamente l’ideale decomposizione del mondo, il preparatore anatomico (come accade nella novella Un corpo di Camillo Boito, fratello di Arrigo) diviene anche artista assoluto, in grado di fissare eternamente, nella concretezza più fisica e tangibile, l’ideale e il ricordo dell’uomo per sempre racchiuso nella sua più verità unica, non replicabile e fisica, nei tratti e nell’incarnato del viso e del corpo. Nella Milano della “Brugna” sul Naviglio, delle frequenti esposizioni anatomiche itineranti (prossime, oltre che alla capillare divulgazione del Positivismo, anche al fascino del macabro); nella Milano delle autopsie quotidianamente tenute negli Istituti di Perfezionamento, degli studi anatomici per artisti svolti presso la Ca’ Granda e presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, gli autori della letteratura popolare di allora si muovevano intenti a descrivere un Positivismo rivisitato e corretto in chiave “nera”. Francesco Giarelli (1844-1907), giornalista e scrittore scapigliato, non dimenticava di chiarire:
Che cos'è la bohème? Il noviziato della vita artistica [...] l'anticamera dell'Ospedale: il vestibolo della sala mortuaria. Ancora, che cos'è la bohème? La repubblica in politica, la ragione in convinzioni, il realismo in letteratura: il paradosso in statistica [...]. E' la squadra dell'avvenire [...]. Va alla carica dell'ignoto [...] non conosce lo squillo della ritirata [...] la bohème s'impone al soffio gelato degli avelli. Nulla di più spiegabile che queste misteriose fraternità dei cimiteri colle larve.
La collezione Paolo Gorini si trova all’interno dell'Ospedale Vecchio di Lodi. L’ingresso si apre sull’incantevole cornice del chiostro quattrocentesco, detto della Farmacia.
Orari di apertura:
mercoledì dalle 10.00 alle 12.00,
sabato dalle 9.30 alle 12.30,
domenica dalle 14.30 alle 16.30.
Ingresso gratuito
Nata nel 1981 come Museo Paolo Gorini venne da subito ospitata nella ex Sala Capitolare dell’Ospedale Vecchio. A partire dal 2008 i preparati sono esposti in un allestimento rinnovato, rispetto a quello ideato e realizzato da Antonio Allegri. Agli ambienti espositivi si è aggiunta una Sala Conferenze.